Con Dovlatov, si ride di noi stessi.
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Il suo umorismo, che oggi è un classico che ha reso l?autore uno dei riferimenti obbligati della letteratura russa dell?ultimo Novecento, ha questo movimento tipico: si è portati dentro una cornice, usuale e quotidiana; vi si susseguono scene, descritte con pieno realismo; all?improvviso, la più banale e fiduciosa delle frasi suscita una risposta paradossale e sposta di scatto l?attenzione sulla componente di assurdità che c?è in ogni situazione. Come se d?un tratto si spegnesse la luce mentre si è in un gruppo, o ci si trovasse intrappolati in un dialogo tra sordi. Così, chi ride di questo umorismo filosofico non si ritrova mai in una posizione di superiorità, ma si sente parte di una condizione umana condivisa. E l?umorismo diventa il veicolo di una tragedia: la rivelazione dell?autoinganno in cui quasi sempre viviamo. Dovlatov scrive dell?assurdo che conosce: cioè di se stesso ? un sé molto letterario ? nel mondo sovietico e poi nella vita degli emigrati russi in America. Nella Filiale racconta di un argomento sorprendente per chi conosce i suoi temi: l?amore. Nel 1981 a Los Angeles si tiene un convegno di scrittori emigrati sul «Modello civile, culturale e spirituale della Russia del domani». Nella camera d?albergo dove dorme il protagonista, inviato di una radio di emigrati russi, bussa inattesa Tasja, l?amore dei vent?anni artistici di Leningrado, mai più rivista dai felici Sessanta. E il romanzo comincia a correre su due piani: da un lato, il presente del convegno, contrassegnato dalle nevrotiche dinamiche di scrittori narcisisti e litigiosi, e dalle incursioni di Tasja che scavano nell?intimo del protagonista come un?incresciosa autoanalisi; e, dall?altro, il passato dell?amore, che riappare mediante baluginanti flashback. Per narrare come l?amore ? sublime autoinganno ? rovinò una vita già complicata dai tempi, dalle circostanze e dall?essere umani.