L'autore ci racconta autobiograficamente le vicende della Seconda Guerra Mondiale a cui partecipò come sottotenente, dal suo scoppio fino ai drammatici giorni sulla fragile frontiera orientale con la Jugoslavia.
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Si tratta tuttavia di una testimonianza del tutto anomala, perché Cancogni fu un sofferto antipatriota, un disobbediente della coscienza - del tutto estraneo alla logica e alla retorica del fascismo, alla sua sostanza e ai suoi modi - che non "disertò" dai quarantacinque soldati affidati al suo comando e, come lui, ostili alla "patria" fascista. E ai suoi deliri. Al pari dei fuoriusciti francesi nemici della Rivoluzione dell'89, che invocavano la sconfìtta della patria nella guerra contro le monarchie europee - e per questo detti "gli scervellati" - l'autore appartiene a quel ceto medio intellettuale che si schierò contro la propria patria (in Spagna, in Abissinia, in Europa), odiandola fino ad augurarle la sconfìtta e la rovina, perché così sarebbe rovinato il fascismo. È questo il "modo" interiore delle vicende narrate.