Immaginate che un uomo dalla ferrea logica, dopo aver pianificato il delitto perfetto - quello «sognato da ogni delinquente che rispetti se stesso» -, portandolo a compimento si smarrisca nei labirinti della speculazione e finisca per affidarsi al cieco caso.
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Immaginate poi che in un'altra galassia un professore si proponga di spiegare ai suoi allievi che cos'è la morte, astruso concetto elaborato in un remoto pianeta - «macchiolina pallida» intravista al telescopio -, e che cos'è la vita: ovvero il medesimo concetto rovesciato, giacché noi, qui sulla Terra, chiamiamo vita «ciò che non è morte». Immaginate infine che, mentre designa gli esseri umani da destinare alla morte, un dio noncurante e terribile risponda candidamente all'arcangelo Gabriele che lo interroga sul come e il perché: «Magari a caso», e «Non lo so». Se ci riuscite, allora cadrete fatalmente nella trappola infernale che Landolfi ha teso a tutti noi: costringerci a osservare il mondo (e la nostra sorte e la nostra inane, cavillosa, ricerca della verità) come da una navicella spaziale aliena. E avrete la conferma di ciò che Manganelli scriveva nel 1975: Landolfi sembra nato «all'interno di un universo autonomo, e malamente abitabile, un universo che è insieme grandioso, losco, torbido e stupefacente. Vi accadono miracoli, ma intrisi di una potenza sordida, segni appaiono, non meno minacciosi che enigmatici».